"Sono la cartografa della solitudine"

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Carmen Pellegrino, abbandonologa, censisce i borghi disabitati. Ne parla Andrea Cirolla sul «Corriere della Sera», Il Club de La Lettura del 20 luglio 2014

Se le chiedeste qual è il suo mestiere, potrebbe rispondervi: storica e scrittrice. E non direbbe niente di sbagliato: Carmen Pellegrino — classe 1977, cresciuta a Postiglione, nel Salernitano — ha studiato storia contemporanea con Giovanni De Luna, collabora con «Il Mattino» di Napoli, è un’editor e una narratrice. Eppure quella risposta avrebbe un vistoso margine di imprecisione. Per definirla correttamente c’è voluto addirittura un neologismo. Perizia di un accademico? No, trovata di un bambino (un po’ linguacciuto).

La racconta spesso. Sembra una fiaba, ma — assicura — è tutto vero: «Ero in libreria, sfogliavo un libro sulle rovine. “Che leggi?” mi chiese. Gli risposi, lui rimase zitto un momento. Poi, piuttosto compiaciuto: “Allora sei un’abbandonologa?”».

Collabora con l’antropologo Vito Teti, da cui ha appreso il metodo scientifico per lo studio delle rovine. In dieci anni ha censito circa mille paesi abbandonati, visitandone più di trecento, dal Cilento alla California. Li racconta su riviste e giornali, e da maggio, in qualità di ospite, nella trasmissione «Uno Mattina» su RaiUno. Ma anche sulla sua bacheca di Facebook, con istantanee e frequenti status.

Quali luoghi l’hanno più colpita?
«La piazza dell’olmo di Roscigno Vecchia, nel Cilento. Le case di Craco, sull’Appennino lucano. Un orto storto pieno di menta selvatica a Romagnano al Monte, nel Cilento montuoso, 50 chilometri da Roscigno. Lì ho cucinato un’invitante minestra di sassi (ma questo non diciamolo…). E poi i saloon di Boodie, in California; lo scheletro di un’automobile a Oradour-sur-Glane, Francia. I ruderi di Ani, città medievale nella provincia turca di Kars al confine con l’Armenia, che qualche anno fa divennero la mia dimora provvisoria. I resti delle fabbriche di Careggine, sulle Alpi Apuane, sommersi d’acqua lacustre per buona parte dell’anno. Le cascine del cremonese, dove il lavoro era organizzato come nei castelli medievali. Oppure le case di Serjilla, una delle “dead cities” della Siria. Ora, io mi chiedo perché mai le chiamano città morte, se anche la morte se ne è andata da questi luoghi».

L’ultimo borgo che ha visitato?
«Monterano, nel Lazio. Non so se è prudente dirlo, visto che a volte scavalco le transenne o mi affido a cani o capre selvatiche per scovare un ingresso. Mi diverte parecchio quel borgo. Alle case mancano i tetti, le finestre. Quando gli ultimi abitanti se ne andarono, alla fine del Settecento, portarono con sé anche gli architravi. Così, oggi l’effetto è quello di case come tante teste esplose nell’abbandono, prive di capigliatura e con bocche spalancante e sdentate».

Questi luoghi sono ancora una risorsa?
«La fragilità, l’imperfezione, l’inciampo. Queste ai miei occhi sono risorse. Tanto più se preservano la durata. A ben pensarci, sembra un passaggio impraticabile. Eppure…».

Eppure lei lo pratica.
«Inseguo le ombre. Succede anche quando vado ai funerali degli sconosciuti, una volta a settimana. Senza farmi troppo notare dico due parole al morto — parole della quotidianità, non eterni riposi — e poi vado via».

Li racconta su Facebook.
«Sì, e poi su un quaderno, che un editore romano mi ha appena proposto di trasformare in libro».

Che valore conservano per la collettività, le rovine?
«Credo che le rovine comuni non valgano meno delle rovine nobili, sono allo stesso modo piene delle nascite e delle morti di chi ci ha preceduto. Tuttavia, il cancan della desolazione non è solo malinconico. Anzi, può rivelarsi persino gioioso se attiviamo quel tipo d’immaginazione che non mette tutto a posto».

Nel momento in cui elegge le rovine comuni a documento e le considera senza pregiudizi di valore accanto a quelle nobili, prende una posizione di carattere storiografico. Come coniuga i mestieri di storica e abbandonologa?
«Mi tornano in mente i versi di Vittorio Sereni, quando si chiede cosa può essere un uomo in un paese, sotto il pennino dello scriba, dentro una polvere di archivi, e risponde: “Nulla nessuno in nessun luogo mai”. Ecco, se penso alle rovine nobili o comuni, penso al lavoro, alle fatiche di chi le ha costruite. Uomini e donne che la storia non ricorda ma che sono vissuti, e hanno lasciato qualcosa di sé. Da lì noi proveniamo».

Non li ricorda la storia, ma il presente vive anche dello scarto che è la forma in cui il passato li conserva: detriti, pietruzze, segni.
«Le rovine parlano di un passato in pietra di cui siamo parte. Di margini, porzioni di scarto. Ovvero di ciò che è stato reciso, assieme ai legami col passato, al punto che il nostro eterno presente è così strepitosamente vuoto d’avvenire. Dal mio punto di vista, l’avvenire non può non impigliarsi nell’origine. E quindi anche in quelle pietre — un puro nulla, secondo l’opinione corrente — che non aspettano altro che la parola sgorghi dal fondo di chi le guarda».

Il suo primo romanzo, che uscirà per Giunti nel gennaio 2015, sarà ambientato a Roscigno Vecchia. Cosa la lega a quel borgo, qual è la sua storia?
«Da secoli il suo fondo argilloso è colpito da una frana lenta e continua. È detto il “paese che cammina” per via delle progressive migrazioni dei suoi abitanti verso terreni più saldi. Mi lega a Roscigno soprattutto una figura di donna, l’ultima sua abitante, che si arrampicava sugli alberi, parlava alla polvere. Il mio romanzo parlerà di lei».