Da una terra inospitale

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I navigli del milanese di Anna Salvi e Franco Fava – La Martinella di Milano

Il territorio era «al basso, una vicenda d'acque stagnanti e di dorsi arenosi, all'alto un labirinto di valli intercette da monti inospiti e laghi».
Ed ecco come una terra un tempo inospitale, sterile e paludosa, è stata trasformata e mutata nel corso dei secoli con un immenso lavoro: eliminando le paludi, addomesticando le acque, utilizzando quelle dei fontanili e dando luogo ad un complesso di norme consuetudinarie di grande saggezza (come quella che nessuno possa opporsi al passaggio di un canale irrigatorio su di un suo fondo). Alla base di questa fecondità, l'ingegnoso ed organico sistema d'acque creato da monaci che, giunti da Clairvaux, si fermarono nella Clara Vallis, da Morimond a Morimondo «che rimane uno dei punti centrali di bonifica derivante dal sistema del "pratum marcidum" che significa "umido ed imbevuto d'acqua"».

In un secolo circa il territorio compreso tra Milano, Lodi e Pavia fu radicalmente ricreato con l'escavazione di quello che giungerà a Milano col nome di Naviglio Grande. Nel 1177 derivando dal Ticino il Ticinello, l'acqua delfiume scorre nella valle sino a Boffalora, scende nella pianura asciutta fino alla terra di Gaggiano e di Trezzano.
Scavato nel 1157, il Ticinello aveva lo scopo militare di segnare la frontiera tra i territori di Milano e di Pavia allora ostili.
Milano attendeva l'attacco del Barbarossa e dei pavesi suoi alleati.
L'importanza dei canali nella strategia difensiva dei secoli XII e XIII era veramente insostituibile. Col nome di "navigium de Gazano", il canale fu diretto verso Milano per impulso di Martino della Torre, podestà nel 1256. Il nuovo canale era navigabile, ma pare che la navigazione non entrasse ancora in città o nei fossati che circondavano le mura.

Fu infatti un altro della Torre, cioè Napo, che al tempo della sua signoria emise la provvisione per la manutenzione del Ticinello e della Vettabia con la quale il naviglio può dirsi compiuto. La costruzione del Duomo di Milano è l'occasione per incrementare la navigazione.
Nel 1398 Gian Galeazzo Visconti concede agli agenti della veneranda Fabbrica del Duomo di poter trasportare liberamente a Milano – cioè senza pagamento di pedaggio – tutto il necessario per la nuova costruzione: pietre, marmi, legnami ecc.
Sui barconi carichi del bianco marmo delle cave di Candoglia c'erano a contraddistinguerli le lettere A U F ("Ad Usum Fabricae"), sigla che nell'idioma del Porta divenne “A uf”, a gratis.



La conca di Leonardo in via Conca del Naviglio

Il Naviglio Grande terminava allora al laghetto vecchio presso la chiesa di Sant'Eustorgio: per rendere possibile la comunicazione con il fossato della città che circondava le mura fin dal 1271, bisognava vincere il dislivello d'acqua dei due canali affinché le barche potessero arrivare sino al laghetto di Santo Stefano, nei pressi dell'ospedale Maggiore, formato dal ristagno delle acque del Seveso.

Per la prima volta fu usata la conca così chiamata per la sua forma e ricordata come la "conca di Nostra Signora del Duomo".
In questo modo la navigazione sul naviglio raggiunse la fossa della città, resa in seguito tutta navigabile e anch'essa munita di conche: era il tempo di Filippo Maria Visconti e il canale era in comunicazione ancora solo con le acque del Ticino.
Scendevano verso Milano, dal lago Maggiore per il Ticino, legnami da opera, malvasia amabile di riviera, olio, burro, noci, castagne, lance, aste e altri tipi di armi: e così, tanti secoli dopo, si rinnovava e riunificava quell'antico commercio che le popolazioni liguro-celtiche avevano di forza rubato a Marsiglia, appropriandosi della "via dello stagno", che dalle isole del Galles, attraverso Saonne e Rodano, approdava a Marsiglia, e della "via del vino" che si faceva risalire attraverso il Rodano e il lago di Ginevra, sino al lago Maggiore e al Ticino.
Lo scorrere dell'acqua annulla tempo, spazio e conseguenti divisioni; se risaliamo l'alzaia da Milano sino alle origini del Ticinello ritroviamo le stesse insegne in ferro battuto delle osterie provenzali, e gli artigiani del rame ci offrono coppe lavorate alla maniera etrusca. Il carattere lombardo chiarisce bene influenze artistiche e somiglianze di modi di vita. Nei paesi lungo il Naviglio come nell'entroterra ligure vi è rispetto della solitudine altrui, non si lanciano occhiate indiscrete e curiose, chi ha imparato ad usare volontà e saggezza ama in singolare misura il paese e la famiglia che gli hanno dato la forza di continuare la sua lotta con la povertà.


Ma se le cronache del tempo, come il "Flos florum", gli "Annales piacentini", le "Memoriae mediolanensis", il Giulini nel '700 e il Cattaneo nelle "Notizie naturali e civili sulla Lombardia", ci danno dati, nomi e norme in uso, c'è una parola che ci guida alla ricerca più vera, quella che aldilà delle fonti scritte porta testimonianza del lavoro di chi ha eseguito nellasperanza di rendere più fertile la terra e più proficuo il commercio: in termine tecnico il canale era definito come "manufactum", cioè come opera fatta con le mani.





In alto a sinistra: Osteria del Ponte.
In alto a destra: balcone in ferro battuto sulla facciata di Villa Gaia a Robeco.
Di fianco: il ponte degli scalini a Robecco (foto Anna Salvi)





Lungo l'alzaia, riva idrograficamente sinistra, la toponomastica(1) popolare è il documento che riporta umanità alla cronaca: il fossato di "pan perduto" abbandonato in favore del Ticinello racconta semplicemente una fatica lunga ma inutile.
I corsi d'acqua erano allora vie di comunicazioni preferite, perché più economiche, sicure e rapide. I canali servivano non solo ai commercianti ma anche ai pittoreschi cortei signorili. «S'andava per acqua in campagna, attraverso sponde fiorite e folti alberi fronzuti, tra suoni di mandole e di liuti e canti di musici e canzoni a ballo e sorrisi e sospiri. La corte Sforzesca sciamava di primavera per le dolci e pingui terre di Lomellina, sulle grandi barche e i bucintori lussuosi».(2)

Le "ca' de can", situate nei boschi del Ticino, sono cascine che probabilmente servivano al mantenimento di folte mute di cani che guidavano le cacce nei boschi di Gian Galeazzo o Ludovico il Moro.

Gian Galeazzo nel 1475 regala alla propria amante, Lucia di Merliano, contessa di Melzo, prati, molini e poderi situati presso Vigevano e ordina l'apertura di un canale per condurre l'acqua necessaria alla coltura del riso, introdotta per la prima volta in Italia.
La "roggia Mora", che mette in moto il mulino di "Mora alta" e il mulino della "Mora bassa", entrambi ancora in funzione, ci ricorda che Ludovico fu il più attivo, assieme all’“ingeniero” Leonardo, nell'utilizzare ogni roggia e ogni fossato.
La cascina “Pegorara” era un dì popolata da pecore provenzali importate sempre da Ludovico, come il gelso, che in dialetto viene ancora chiamato moròn.
C'è una lapide, nella zona della Sforzesca, vicino a Vigevano, che ricorda le opere di bonifica realizzate da, Ludovico il Moro. In essa si sottolinea il fatto che «Litavicus coltiva questi campi, né si pente di essere autore di una pace che si adatta ad un agricoltore».
(1) Toponomastica, studio dell'origine e del significato dei nomi di luogo.
(2) A. Visconti, Paesaggi Lombardi. Dall'Olona al Ticino, Milano, 1932-1933.


Conca del naviglio di Bereguardo, detto "Il naviglietto" (foto Anna Salvi)