La "camera picta" della cascina Robarello: un importante frammento della civiltà aresiana

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Tra i tanti motivi storico-artistici per cui varrebbe la pena salvare la cascina Robarello con un restauro adeguato vi è la sua 'camera picta', unico resto dell'edificio padronale. L'esperto Andrea Spiriti ha effettuato una perizia finalizzata a valutare la tutela della struttura da parte della Soprintendenza.


"Unico resto dell'edificio padronale (il "casino" o "casino da nobile" dei documenti) e dell'annessa cappella , l'ambiente in esame è qualificato da una decorazione pittorica affrescata, costituita da un fregio che alterna un motivo ornamentale a girari floreale con putti alternati a quattro emblemi: nell'ordine il rametto di Corallo col motto INDURABITUR, la Bilancia col motto GAUDET SORTE, l'Elefante con motto abraso e un frammento della Fortuna.

E' palese la derivazione generale dalla cultura emblematica dominante nello Stato di Milano fra Cinque e Seicento, e ampiamente diffusa dopo la grande codificazione di Andrea Alciato (senza contare il mondo gioviano) e la presenza massiccia dell'Iconologia di Cesare Ripa. Ma la derivazione specifica è dalle Imprese sacre di Paolo Cesare Arese2, la grande impresa iconologica edita a Milano e poi a Tortona dal 1621 al 1635.

Cesare Arese (1574-1644), figlio di Marcantonio III e zio del grande Bartolomeo III, divenne nel 1589 teatino col nome di fra' Paolo; grande predicatore e panegirista, vescovo di Tortona dal 1620, oratore funebre di Federico Borromeo nel 1631, eroico durante la pestilenza. Nella sua vasta produzione, le Imprese costituiscono forse il più organico tentativo di riorganizzare le risorse dell'emblematica a fini edificanti e sistematici: si succedono così le norme metodologiche, i grandi temi (Dio, Maria, i Santi come categoria), le Virtù cristiane, le Festività , il Santoriale analitico maschile e femminile (con vasta premessa mariologica) e, ad opposizione, i Vizi; ma anche succose digressioni antichistiche, astronomiche, chimiche, storiche.

L'emblema sesto del libro primo, p. 250, a illustrazione del sonetto Fisso nel suoi dell'ampio ondoso argento, è dedicato all'apostolo Pietro, allegoricamente visto come corallo reso tenace dalla permanenza nel mare: rimando alla professione di pescatore ma anche alla metafora evangelica dell'instancabile "pescatore di uomini" e alla Chiesa resa forte dalle persecuzioni ("fiuctuat nec mergitur"). Tale emblema è riprodotto fedelmente alla Cascina Robarello, a riprova del pieno inserimento del ciclo nella cultura aresiana che, codificata a primo Seicento nell'ambiente degli Arese (Cesare-Paolo, Giulio I coi suoi molti contatti pavesi; ma anche Giulio Clari, cognato del suo omonimo e importante letrado), trionferà  a metà  secolo con la vastissima attività  di Bartolomeo III Arese (1610-1674).

L'ormai ampia bibliografia sul personaggio esime da ogni dettaglio: basti ricordare come la potenza politica del "dios de Milà n" si basava sì sulla vasta consorteria (centrata sull'alleanza dinastica fra gli Arese, Borromeo, Visconti Borromeo, Archinto), ma soprattutto sul coagulo artistico: un linguaggio figurativo e architettonico comune, con precipuità  metodologiche (uso politico e solo in subordine dinastico dell'iconografia classica), culturali (rapporto privilegiato col mondo romano), tematico-formali (boscarecce, quadrature ruinistiche) unitarie, all'insegna di un classicismo innervato di barocco e abile nei recuperi neomanieristici, basato sul valore paradigmatico dei grandi palazzi aresiani (quello milanese e soprattutto quello di Cesano Maderno) nei confronti delle molte derivazioni.

Un grande progetto culturale, dunque, che vede coinvolti artisti del calibro di Gianlorenzo Bernini, Salvator   Rosa, Pierfrancesco Mola, Gaspard Dughet, tutta la seconda Accademia Ambrosiana (Procaccini, Busca, i Montalto...) e moltissimi altri, con formidabili rimandi a Roma ma anche agli Erblà nde austro-boemo-magiari, grazie soprattutto all'opera di Carpoforo Tencalla.

La cascina Robarello è un'espressione tipica di questa modalità  derivativa da Cesano: è infatti palese il rapporto dei putti - dai volti allargati, con un tono parzialmente derivato da Melchiorre Gherardini e comunque inconcepibile prima delle vaporosità  del San Giuseppe varesino (1653) - con l'arte di Giovanni Ghisolfi, e in specifico col grande stemma d'alleanza che campisce la decorazione di sala 46; e di contro gli emblemi rimandano a molti casi di cultura aresiana: certo i frammentari episodi cesanesi (sale 33 e 34-35), ma soprattutto la sala detta appunto degli emblemi a palazzo Besozzi Casati di Cologno Monzese.

E' abbastanza probabile che Ghisolfi, come quasi sempre gli accade in ambito aresiano, sia affiancato da un collaboratore di alta qualificazione: non quindi la ditta Marliani ma forse Marcantonio Pozzi, il valsoldese che è anche il tramite fra lui, Tencalla e Francesco Castelli. Bene dotale di Lucrezia Omodei, donato nel testamento di Bartolomeo III alla figlia Giulia Arese, moglie di Renato II Borromeo, il palazzo ha dunque il suo resto più illustre negli affreschi in questione, importante frammento di cultura aresiana databile dopo la prima fase cesanese (1659-1665) alla quale si ispira, ma ancora in un clima revivalista verso i tempi di Cesare-Paolo Arese. Penso quindi che una sistemazione verso la seconda metà  del settimo decennio sia la più ragionevole."