Ma le rime non sono un piacere condiviso

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L'articolo, di Patrizia Valduga, è tratto da <<La Repubblica>> del 29 marzo 2014

Molti la scrivono, pochi la leggono e pochissimi sanno che cos'è: no, la poesia non è, non è mai stata, e non sarà mai un piacere, condiviso dai più. Per i più, i poeti sono i cantautori, esattamente come ai tempi di Domiziano, quando Marziale scappava da Roma e andava a Imola dicendo: <<Poeta/exierat, veniet cum Cytharedus erit>> (me ne andai poeta, tornerò quando sarò citaredo) visto che <<grazie, onori e premi>> toccavano solo ai musici. E se succede che un poeta raggiunga quella forma di notorietà detta "successo", succede sempre per ragioni estrinseche alla sua opera: perché ha la gobba, perché è mezzo matto, perché si è suicidato, perché è morto ammazzato. 

La poesia è sempre stata un piacere per pochi perché, come diceva Foscolo, i lettori di poesia sono "creati dalla natura".  E la natura li crea con un'ipersensibilità dell'udito, con un vero amore per la lingua, per un uso non utilitario della lingua; soggetti, insomma, a quella che si potrebbe chiamare settima funzione — se si può aggiungerne un'altra alle sei di Jakobson — la funzione erogena. Il loro numero è fisso e immutabile, come quello degli schizofrenici. Non voglio che si pensi che io penso a un'élite di anime sublimi: questi pochi non sono eletti, anzi sono quasi sempre disperati.
E la penso come Chiabrera, che diceva: «la poesia è il diletto degli uomini, i poeti ne sono la noia», o come Paolo Tinti: «che per loro natura i poeti / sono bugiardi poveri e tediosi», quando non siano «caca-pepe, bbigliosi e ffumantini» (Beffi). Se non si sa fare l'unica cosa che si può fare per loro, cioè leggerli, lasciamoli in pace. Ma chiudo con Eraclito: "Che intelletto essi hanno? e hanno senno? Credono ai cantori di piazza e prendono per maestro il volgo, non sapendo che i molti sono nulla e solo i pochi hanno valore".