Nella voragine che custodisce la memoria valdese

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L'articolo è tratto da <<La Stampa>> del 18 agosto 2013

Non c’è dubbio che questa tappa del viaggio nei luoghi sacri sulle Alpi rappresenti una contraddizione. Eppure, si sa, a volte una contraddizione può addirittura aiutarci a capire ciò che cerchiamo. Basta saperlo, e anche la Gheisa d’la Tana diventa un luogo «sacro» a tutti gli effetti, una tappa necessaria nella memoria dei valdesi.

Dalla torcia elettrica esce un cono giallo di luce che rimbalza nel piccolo buco in discesa. «Ma devo scendere proprio da lì?», mi chiedo un po' intimorito. Sì, l'indicazione sul cartello non lascia dubbi: dopo il sentierino nel bosco, e la breve discesa tra i grossi massi di un'antica frana, è quaggiù che devo penetrare. Cosa ci sarà dentro quel buio? Una mano pronta ad afferrarmi? Il Diavolo?

 

Basta poco per scoprirlo: solo qualche metro nel cunicolo e la luce della torcia si espande libera, fino a perdersi nella grande volta rocciosa. Eccomi nella Gheisa d'la Tana (la chiesa nella tana), dove i valdesi, quando erano perseguitati, venivano a trovare riparo e a celebrare il loro culto. E questo uno dei siti più emblematici nella storia delle Alpi, è un concentrato di tracce e simboli che ci raccontano di persecuzioni, e poi di pellegrinaggi in arrivo da tutto il mondo per celebrare la memoria di quelle stesse.

La tana è un ciclopica voragine conica, umida, silenziosa come un abisso. Un luogo drammatico e toccante. Dove non è difficile farsi trasportare dalla fantasia e vedere i seguaci di Valdo starsene nascosti in questo guscio minerale mentre lasciano uscire a fior di labbra canti sacri e banditi. Cammino sul pavimento sassoso della grotta. Uno scricchiolio appena percepibile accompagna i miei passi. Mi fermo. Il silenzio è così profondo in questo piccolo mondo ipogeo che mi sembra di sentire il battito del cuore che rallenta mentre osservo un fascio di luce scendere dal culmine della volta. Sono in una chiesa buia? Un luogo sacro nel ventre della montagna?

No, la Gheisa d'la Tana non è niente di tutto questo. Non è affatto un luogo sacro, semplicemente perché per i valdesi i luoghi sacri non esistono. E infatti né sacri, né consacrati, sono i 18 templi protestanti sparsi in queste valli: per i valdesi ovunque si può celebrare il culto, anche in un prato qualsiasi. La Gheisa d'la Tana, semmai, è un «luogo sacro» per l'esercito di pellegrini che nei secoli è arrivato in questo spicchio di Piemonte alla ricerca dei «diretti discendenti degli Apostoli», come molti nel mondo pensano siano i valdesi.

Da secoli i valdesi simboleggiano una sorta di luce d'origine per il mondo riformato, perché esistevano ben prima della Riforma e della loro stessa adesione alle tesi di Calvino. Il passaggio nella grande famiglia del protestantesimo avvenne a Chanforan, proprio qui in Val d’Angrogna, nel 1532, quando pastori e capifamiglia stabilirono di aderirvi. Prima di allora si rifacevano solo agli insegnamenti di Pietro Valdo, ricco mercante di Lione che nel 1174 aveva deciso di seguire l'esempio di Cristo e di vivere in povertà, come avrebbe fatto di lì a poco anche San Francesco d’Assisi.

Intorno a Valdo si strinse un gruppo di seguaci che iniziarono a diffondere la sua voce nel mondo. Ma, come ben noto, non fu un facile cammino. L’indigenza in cui vivevano i «Poveri di Lione» (poi chiamati «valdesi» in senso dispregiativo) poteva venire tollerata dalle gerarchie ecclesiastiche, non però il fatto che predicassero autonomamente la parola di Dio e che non riconoscessero il ruolo la Chiesa di Roma. La concorrenza, in certi casi, può essere fatale.
Scomunicati, iniziarono una diaspora in giro per l’Europa vivendo storie tormentate, disseminate di massacri, ma anche di tenaci resistenze e di ritorni gloriosi nella Valle Pellice e nelle valli limitrofe. Ai valdesi, quando il vento spirava a favore, veniva semplicemente proibito di uscire dal loro ghetto alpino se non per motivi di lavoro.

Eccoci dunque di fronte al popolo della montagna per eccellenza: nessuna comunità alpina può dirsi tanto legata alle alte terre come quella dei valdesi, visto che per lunghi periodi la loro presenza è stata tollerata solo da quota 700 in su.
Fuori dal ghetto veniva loro proibito di esercitare attività commerciali, seppellire i morti al cimitero, frequentare le scuole,e perfino tenere i propri figli quando illegittimi. I bambinetti "irregolari" erano sottratti alla madre e avviati alla "più opportuna" educazione cattolica. Tutto questo fino al 17 febbraio 1848, quando Carlo Alberto, messo alle strette, emanò lo Statuto e le Lettere Patenti che finalmente concedevano ai valdesi le libertà civili e politiche.

Eppure, un canonico anglicano di nome William Stephen Gilly in visita nelle valli valdesi scrisse che "se la felicità esiste su questa terra deve essere fra queste persone". Il suo racconto di viaggio, pubblicato nel 1824, contribuì ad alimentare il mito, già ben vivo, dei discendenti degli apostoli e delle loro ridenti vallate. Una fila interrotta di visitatori scendeva in pellegrinaggio sui luoghi della persecuzione dei loro sfortunati cugini cristiani. Mentre riemergo nella luce fuori dal cunicolo, mi chiedo se nel corso degli anni saranno stati più i valdesi o i pellegrini a scendere in raccoglimento nella Gheisa d'la Tana.

Molti siti analoghi a questo, come il Vallone degli invincibili, o il Bars d’la Tajola sono stati riconosciuti come luoghi di interesse storico solo dopo la metà Ottocento: alcune di queste mete di pellegrinaggio sono davvero legate a fatti accaduti, altre rappresentano piuttosto un appiglio per vedere la Storia, tracce per rinsaldare il legame comunitario con le origini. Perché, come ci ricorda lo studioso valdese Giorgio Tourn, per la visione protestante la Storia non è lo scorrere temporale dei fatti, ma il luogo dove si esprime la fede. E così, contraddicendoci o no, la visita alla Gheisa d’la Tana diventa un tappa necessaria nei «luoghi sacri» delle Alpi.