Gli anni Novanta delle cascine milanesi

Versione stampabileSegnala a un amico

Emilia Franco, in MilanoAmbiente della primavera 1989, fornisce un contributo appassionato sulle realtà di un fondamentale momento di relazione fra uomo e natura, città e campagna rappresentato dalle cascine milanesi.

"C'è una questione a Milano sulla quale è possibile valutare il livello di equivoco, incomprensione, demagogia, inadeguatezza esistenti tra la cittadinanza ed i suoi rappresentanti nelle istituzioni: la presenza delle cascine. Come le masserie nel sud Italia, i casali del Lazio, i masi nelle Alpi orientali, esse descrivono l'uomo nel suo relazionarsi alla terra-ospite, i suoi modi di vita e di lavoro.

Ma nelle cascine troviamo qualcosa di più e di peculiare. Analizzando le tipologie, si nota un sempre maggiore adattamento delle strutture alle esigenze di cicli di produzione via via più ampi e completi, ed insieme una specializzazione delle funzioni e dei ruoli, uniti alla preoccupazione di ottimizzare tempi, resa e condizioni esistenziali  della mano d'opera.

Ciò identifica un preciso momento di transizione a forme proto-industriali nell'organizzazione del lavoro (esempio: cascina/filanda, con scale esterne ed alloggi dei salariati allineati sul prospetto principale).

Il sistema delle cascine non appare quindi soltanto "documentazione" storica, bensì 'linguaggio" comunicativo sul territorio, di uno stato d'animo costantemente orientato alla ricerca del meglio, alla soluzione di problemi comunitari e del lavoro.

Si tratta di quello spirito lombardo che nasce, prim'ancora che dalla ricerca del profitto, da un atteggiamento di solidarietà umana e di ottimismo; lo stesso che nel dopoguerra ha reso possibile il "miracolo" milanese ed in esso l'integrazione di migliaia di italiani provenienti da diverse regioni.

Il gruppo delle cascine milanesi, in particolare, materializza momenti-chiave del rapporto città /campagna, spesso nei contesto di eventi fondamentali per la storia d Europa, costituendo una componente omogenea e specifica della memoria storica italiana ed europea. Non si capisce perché mai un simile patrimonio dovrebbe essere disperso, affidandone casualmente ai privati il riadattamento a funzioni imprecisate, ma certamente utilitaristi e peregrine.

Se le cascine milanesi sono l'anello di congiunzione tra archeologia industriale e architettura popolare di tipo aziendale; se si riconosce loro di rappresentare il rapporto città /campagna nel contesto di processi economici e storici di portata europea; se i milanesi doc, nonché quelli di acquisizione elettiva, dichiarano da sempre e con fermezza di riconoscere la loro milanesità in queste semplici nobili case rurali, molto più che negli eclettici palazzi del centro....allora non si capisce perché dovremmo chiedere alle Cascine di pagarsi da sè le spese di restauro, adattandosi a fare le pizzerie, le concerie, le discoteche, le ville private... mentre sono adatte a diventare centri, musei e scuole d'Arte, biblioteche, luoghi di incontro internazionale e di creatività : tutto tranne che incentivi al consumismo e occasioni non pertinenti di assistenzialismo.

Come per il restauro delle Ville Vesuviane intervenne la Comunità Europea, così sarebbe auspicabile che la problematica delle cascine milanesi venisse recepita in sedi più ampie, dal punto di vista finanziario e culturale, di quelle disponibili attualmente. Potrebbe forse avviarsi un progetto di salvaguardia mirato e consapevole, quindi probabilmente più efficace, ottenendo nel contempo presidi di tutela del verde agricolo, attrezzato o silvestre, circostante l'organismo architettonico.

Un discorso di valore aggiunto andrebbe fatto per quelle cascine che, presentando particolari pregi formali, rientrano in un ambito estetico oltre che archeologico. Invece proprio su di esse si esercita con maggior accanimento l'odio neobarbarico di chi dalla cultura si sente escluso pei insensibilità o per ignoranza.

Citiamo l'esempio di due cascine storiche contigue, all'inizio e alla fine di via S.Paolino nel quartiere S. Ambrogio alla Barona. Protette (!!?) in base alla legge nazionale 1089/39, identificavano l'una - la tardogotica CARLIONA - il momento iniziale, l'altra la rinascimentale MONTEROBBIO - il momento culminante del passaggio dalla piccola proprietà frazionata medioevale (XI-XIll sec.) alla costituzione del latifondo con le coltivazioni ESTESE DEL '500 (canalizzazioni, chiuse, sistemazioni delle marcite, risaie, semine specializzate). Ebbero, nel giro di pochi anni queste cascine storiche, "monunenti nazionali" in base alla sopracitata legge, hanno ricevuto una tale escalation di attentati da richiamare la scena della tortura di Augustine ne "Le 120 giornate di Sodoma" del Marchese De Sade.

1) La CARLIONA: prospetto ovest ritmato dalle tipiche ghiere ogivali lombarde in cotto; prospetto sud, vi si legge(va) una interessante sovrapposizione frammentaria di edicole quattrocentesche a tutto sesto tra semicolonne addossate:
- asportata la tettoia del portico e i comignoli;  interi pilastrini si sono mossi come poltergeist e si notavano sparsi negli orticelli intorno a varie funzioni surrettizie;
- tonnellate di materiali edilizi ammucchiati a ridosso dei muri sfondati, travi e pavimenti all'interno spaccati, il tetto bruciato e sfondato a metà; le due facciate principali recintate e occultate con altissime siepi spinose per impedirne la vista. Infine, costruito a tempo di record proprio davanti alla dimora visconteo-sforzesca ridottta a tetro rudere, un grosso edificio che addirittura rifà il verso, con la sarcastica presunzione delle sue forme pacchianotte, ad una delle sezioni interne - l'immagine meno significativa cioè - della povera Carliona.

Cosa dire? Trattasi di un'operazione altamente in culturale analoga a quella che si compie buttando via il mobile antico, autentico quanto tarlalo, per sostituirlo con una imitazione stile "Luigi XVI puro millenovecentoottantasette". Ovvero trattasi di un'operazione violenta e cinica che involgarisce persino l'immagine della memoria storica che si è voluta estirpare, Petronio Arbitro nel suo testamento all'incendiario imperatore Nerone proponeva: "uccidi pure, ma, per carità non cantare!!!". Fatte le proporzioni, direi che la grottesca celebrazione sta ad una operazione culturale quanto i paradisi artificiali stanno al Paradiso. Cioè agli antipodi.

2) La MONTEROBBIO: nel censimento della Curia del 1597 compare il nome del proprietario Cessatte Francesco da Lunate e l'elenco dei famigliari del fattore Arnati che l'aveva in custodia. Passata di mano più volte, dagli Agostani che la dotarono di cella campanaria e chiesa interna, ai nobili che fecero scolpire sui grandi camini lo stemma araldico - leone rampante su scala a otto pioli -, fino al cavalier Muzio in epoca napoleonica, nel '900 fu condotta dalla famiglia Negri, poi dalle sorelle Daccò che nel 1959 la cedettero per esproprio al Comune (Centinaia di equini, bovini eccetera furono venduti e sul terreno del fondo venne costruito il quartiere S. Ambrogio).

Consta di due cortili, uno a villa, porticato e loggiato, l'altro a rustici e stalle. Il corpo divisorio centrale era decorato all'esterno con motivi di ispirazione marinara, conchiglie, nastri, grottesche, meridiana (restano tracce); all'interno con scene di caccia e bosco. Nella camera sotto l'altana, contro il soffitto a travi e cassettoni lignei decorati, corre una fascia dipinta a tralci di fiori campestri e nicchie barocche, finestre ovali "a cielo aperto", vasi, festoni di frutta, scudi e cartigli includenti figure femminili agresti a monocromato, in atto di recare attrezzi e filare la seta. L'affresco si estende su tutte le pareti tra pavimento e soffitto, ma è coperto da calce fino all'altezza delle sovrapporte.

Riportandolo alla luce, avremmo probabilmente l'unica testimonianza visualizzata dell'organizzazione agroeconomica della Barona nel 1500/1600, oltre a figure a misura reale come indica il tipo di composizione. Una galleria sotterranea, oggi chiusa ed allagata, collegava Monterobbio col Castello Sforzesco e con la Cascina Chiesa Rossa (in zona 15) proseguendo poi per Pavia; e pare che in epoche politicamente buie i monaci se ne servissero per aiutare i perseguitati a fuggire.

Tutta la cascina è un gioiello semisepolto nel fango, tra carrozzoni di nomadi e gabinetti che una squadra sportiva locale si è arrogata il diritto di costruirle davanti, rovinando il prospetto più bello: il lato ovest, con balconcini barocchi d'artigianato andaluso,, mentre contro i rustici del secondo cortile si accalcano discariche e capannoni abusivi... E peggio si teme per il futuro.

Cominciano infatti i lavori di trasformazione dell'area di piazza Maggi prospiciente la cascina. Cavalcavia, parcheggi da 2.000 posti-auto, metropolitana leggera e metropolitana pesante, il capolinea dei pulmann della provincia, maxialberghi, cooperative edilizie in quantità e negozi.

Si prospetta il destino della Carliona, che anzi potrebbe fornire con la sua storia edificante il know-how, il modello per il nuovo fai-da-te ad uso dei proconsoli della speculazione edilizia. "Come-ti-sistemo-la-cascina": in barba alle leggi di Stato e a tutto il frustrato amore dei milanesi, con buona pace dei pretori e delle associazioni ambientalistiche, per i migliori destini di già pingui conti in banca. Intanto alle porte di piazza Maggi preme l'espansione edilizia di Assago, la cui giunta PCI-PSI ha in questi giorni approvato il faraonico piano di costruzione a terziario su circa 1.000.000 mq che ci si illudeva potessero diventare PARCO SUD.

Pare che la Provincia non abbia fornito in tempo i piani paesistici... (da La Repubblica del 13/11/ 88). È facile prevedere la colossale fungaia in megacubettoni a specchio, tipo Milanofiori, passe-partout dell'indifferenziato, dell'omologato, del drogato e rintronato dal vedere ovunque mille volte te stesso, tutto-domande-e-niente-risposte; oppure qualcosa d'altro che non è MAI quello che realmente c'è, né quello che ti aspetteresti che ci fosse.
Un inganno edilizio come i labirinti dei Luna-Park, mirati alla confusione dei punti di riferimento spazio-temporali, cloaca della coscienza visiva. Nient'altro che un gioco di specchi e specchi per le allodole: l'alienazione narcisistica degli anni '80. Noi vorremmo costruire gli anni novanta delle Cascine Milanesi."