Eid-Olon - capitolo 10

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Nuova giovinezza del professor Baratieri

Finalmente arrivò il tram. Il Presidente salì sulla vettura affollata. Alla fermata seguente, parecchi si alzarono per scendere. Altri irruppero rumorosamente e in un battibaleno occuparono i posti: erano i writers.

Dal fondo del tram Baratieri li teneva d'occhio. C'era "lo spifferatore", poi c'era "l'imprecatore", poi c'era "lo strattonatore"; poi s'accorse che il quarto... era una ragazza, dai capelli ultracorti e vestita da maschio.

Tutto d'un botto sentì una gran fiacca, un gran peso sulla schiena, le giunture doloranti, i polmoni asfittici per l'inutile giornata passata in giro per Milano a respirare catrame.

Cominciò a pensare alle occasioni perse anche quest'anno per star dietro all'Associazione, organizzare tutto nei minimi dettagli, altrimenti non funzionava, quadrare i conti, e per ciò pagare molte cose indispensabili di tasca propria, tanto nessuno l'avrebbe rimborsate; non andare ai concerti, non avere il tempo di leggere i libri che comprava, rifiutare uno dopo l'altro gli inviti a cena di Erminia, che era tanto più giovane di lui.

"Mi pesa, mi pesa troppo ormai". Basta, doveva mollare, piantarla lì. Domani avrebbe dato le dimissioni, un taglio netto - largo ai giovani - e poi via a fare quei viaggi e quelle cure che, pur potendoseli permettere, aveva sempre allontanato verso un futuro sfumato... una riva, un approdo che adesso spariva agli occhi della mente, o forse era troppo vicino.

A via Valenza salì un'anziana signora, dall'aria fragile, elegante d'antan, seguita da un uomo altrettanto attempato, con un vecchio loden fuori taglia: largo, lungo, peraltro anche fuori stagione. Ecco i veri fantasmi dei navigli, rifletté Baratieri. Inaspettatamente, due writers si alzarono. "Prego, prego."

Pregavano! Cedevano il posto! Quando mai i ragazzi cedono il posto in tram. E chi se lo sarebbe aspettato da quei tipi!

Alla terza fermata, Porta Genova, si sentiva già meglio e scese per raggiungere a piedi la Dà rsena, dove abitava. Avrebbe voluto dimenticare il vicus. Allontanarsi dal pensiero impuro della speculazione edilizia, che avrebbe finito col tombinare anche quest'ultimo spettacolo della madre Olona in città. "Cristoforo, adesso che sei santo, dovresti pensarci, prenderti a cuore la vicenda, se no finisci anca ti."

Adesso sentiva di aver bene compreso la metafora, l'angoscia del Passatore di portarsi dietro una vecchia meravigliosa innocenza, la fatica, crescente nella coscienza, del fardello, del bambino ch'era in sé.

Il peso enorme dei sogni irrisolti lo straziava, per non volersi ancora mutare in rimpianto.

Perché non è il sopruso della violenza a far più male. Fa più male rinunciare alla visione positiva della vita che fa ricercare il bene per le cose giuste e fragili che si amano, il germe forte e indifeso della vita spirituale, della vita futura. No, non poteva scaricare proprio stanotte giù in Dà rsena quel piccolo scomodo compagno di viaggio.

Si poteva fare una Fondazione. Vicus... Vicus Baroni. E per prima cosa, chiedere che venisse rimossa l'abominevole palizzata in ferro, liberare il fiume. Si sentì già più saldo sulle gambe, e più forte.

All'inizio di viale Bligny tirò fuori le chiavi per aprire il portone della palazzina ottocentesca, residua eredità di famiglia. Adesso lui era la famiglia di se stesso. Tutto sommato la solitudine gli era andata sempre bene, l'aveva voluta, difesa. C'era abituato.

Ma non stasera, si disse. C'era tempo per restare solo. Andò subito al telefono, che era davanti alla grande finestra della sala, e chiamò Erminia.

Poche luci, poca gente per la Dà rsena, terminal di sogni di Cristofori antichi e moderni. Gli parve notare, dall'atteggiamento, che alcuni, come lui, recassero in salvo sulle spalle il loro giovane cristo e che nel buio della notte si muovessero affaticati, ma convinti, verso quella meta che la fiaccola in mano al compagno invisibile gl'illuminava.