Dalla città "di fango e di lucro" al convento "dove respira il lago"

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L’articolo, tratto da «La Repubblica» del 7 novembre 2013, è di Roberto Cicala

Le due vite di Rebora, poeta scapigliato prete
Incontri e luoghi lombardi, tra Milano e Stresa, di una delle voci più alte del Novecento

Città di fango e di lucro» è Milano per uno dei suoi figli, quello "scapigliato" Clemente Rebora che con la sua «poesia di sterco e di fiori» forse non entra nelle facili antologie di elogi letterari sulla città ma in quelle più durature che scuotono le coscienze dei lettori. In effetti la sua coscienza resta sempre inquieta, finché a 45 anni sceglie di abbandonare il rumore esteriore della «città rombante» per il silenzio spirituale di un convento a Stresa dove «respira il lago un pàlpito sopito». Su quelle rive cercherà l'approdo finale di un paradiso interiore al termine di un viaggio quasi dantesco iniziato nell'inferno della «città vorace che nella fogna ancora tutti affratella»: è così che si sente accogliere al ritorno dal fronte di «melma e sangue» della Grande Guerra, dove si spezzano le speranze della sua generazione travasate nei versi dei Frammenti lirici, il capolavoro uscito proprio nel ‘13.

Un secolo dopo Gianfranco Lauretano, in un libro Bur, rilegge quei testi ripercorrendo le tappe di una geografia anche interiore che diventa invito alla lettura di un autore da riscoprire nella sua ruvidezza stilistica. Sono Incontri con Clemente Rebora (pagine 192, euro 10,50) tanti quanto i luoghi, soprattutto lombardi, che hanno ispirato l’opera del poeta milanese nato nel 1885 in via Manuzio e cresciuto tra Porta Venezia e la Centrale. La stazione è al centro di una celebre allegoria della vita costretta da imposizioni; Rebora la rispecchia con grande originalità in un «carro vuoto sul binario morto». Eppure «tu l’eterno insegui» si ripete quando incontra l’amore nella pianista russa Lydia Natus, la sua «lucciola», con cui vive al quinto piano di via Tadino 3. Con lei e con amici spesso percorre di sera «avanti e indietro la Galleria semideserta, sempre parlando e discutendo», come ricorda Daria Malaguzzi, oppure assiste a concerti della Scala di cui racconta la varia umanità del loggione, «l’ultimo piano».

Appena può, però, scappa verso «il mito dei monti» amati, tra il Bianco e il Rosa, soprattutto negli anni in cui insegna a Novara definendosi «professoruccio filantropo» prima dello scoppio della guerra: sono anni di precariato in cui si sente «tutto instabilità e sgambetti di gorghi, come la corrente del Ticino che mi conosce e mi capisce» quando l’attraversa sul treno dei pendolari. Sceglie così, come rivolta alle istituzioni, l'insegnamento privato, tra Circolo Filologico, Accademia libera di via Brera e Lyceum di via Manzoni: qui, durante una conferenza sulla storia delle religioni nel 1928, legge un brano dei Martiri Scillitani che lo commuove non riuscendo ad andare avanti: «la Parola zittì chiacchiere mie».

E la conversione al cattolicesimo. Per ricominciare decide di liberarsi di carte e libri: lo sentono gridare «Ehi, strascée!» dalla finestra di casa e buttare tutto. Fa la prima Comunione a 45 anni, entra tra i rosminiani a Domodossola e affacciato a un’altra finestra, quella della camera dove a Stresa vive il calvario fisico e mistico degli ultimi anni, torna alla poesia, dopo vent’anni di silenzio. Infermo, rimpiange il volo degli uccelli: «per finestra vedo... / e nel frecciar di loro / l’inerzia mia in libertà assaporo». Così in riva al lago di Rosmini vive la «grazia di patir e morire oscuramente» che è il suo voto segreto rivelato solo dopo la morte, nel 1957. Fa in tempo a ricordare con il giovane editore Scheiwiller il «portentoso Duomo» che ferma «il cielo in terra» e a confessare a Montale in visita che «la voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile». Forse anche a Milano «se ci si abitua si riesce a sentirla dappertutto».